Perchè il teatro è importante
L’inconsapevole funzione terapeutica del teatro e della rappresentazione
La storia del teatro è costellata di momenti in cui l’arte scenica viene usata con modalità o finalità terapeutiche, il più delle volte senza che né l’attore e tantomeno lo spettatore ne siano consapevoli.
Proveremo a ripercorrerla cercando, come un tesoro nascosto, momenti in cui la rappresentazione “curava” la società, il popolo o la borghesia.
La storia del teatro nella Grecia antica, che si svolge essenzialmente nella città di Atene, comincia verso la fine del IV secolo a.C., quando il tiranno Pisistrato autorizza una gara per la rappresentazione di drammi tragici come parte integrante delle feste in onore di Dioniso e, sembra, anche per distrarre il popolo dall’eccessiva asprezza del suo governo.
La struttura del teatro greco, con i suoi rituali, ritmi e coro, costituisce di certo un evento teatroterapeutico di massa, un luogo in cui guardare senza prendere parte, assistere a tre tragedie prima, a una commedia poi, che parla di amore, sesso, satira politica, e dove avviene la catarsi ovvero la liberazione dai “mostri”; tutto ciò in anticipo di millenni sullo psicodramma di J.L.Moreno o il Playback Theatre di J.Fox, ma non per questo meno efficace.
Lo stesso accade di lì a poco nel vicino impero romano, dove si costruiscono teatri immensi, basti pensare al Circo Massimo e al Colosseo, che danno corpo al sentimento di grandezza dell’impero e in cui i romani, tra l’altro, possono sublimare le loro spinte aggressive tramite i ludi scenici.
Passando poi direttamente al medioevo, la Festa dei Folli, che non era proprio una rappresentazione, ma comunque intrattenimento con costumi, ruoli e personaggi, era l’unico giorno dell’anno in cui il popolo diventava sovrano: poteva prendere in giro i potenti e i prelati senza incorrere in sanzioni di alcun tipo, costruiva e indossava maschere di animali o mostri deformi, esaltando così la natura “bestiale” dell’uomo, e infine il più povero o il più brutto della città veniva addirittura incoronato re e per tutto il giorno onorato come tale. Inoltre potevano parteciparvi anche i bambini e i ragazzi, diventandone addirittura, a volte, protagonisti. Insomma, per un giorno il popolo viveva un rovesciamento di ruoli, o per dirla all’americana partecipava ad un role-playing, di certo molto rozzo e primitivo ma che non aveva nulla da invidiare alle moderne tecniche drammaterapeutiche sull’inversione dei ruoli di cui Robert Landy è uno dei maggiori fautori.
Parlando di ruoli fissi, di improvvisazione, di mestiere, è doveroso aprire una parentesi per la Commedia dell’Arte.
La Commedia dell’Arte è nata in Italia nel XVI secolo ed è rimasta popolare sino al XVIII secolo. Non si trattava di un genere di rappresentazione teatrale, bensì di una diversa modalità di recitazione degli spettacoli. Le rappresentazioni non erano basate su testi scritti ma su dei canovacci detti anche scenari, sui quali gli attori improvvisavano scene e dialoghi, e i primi tempi erano tenute all’aperto con una scenografia fatta di pochi oggetti. All’estero era conosciuta come “Commedia italiana”.
La definizione di “arte”, che significava “mestiere”, veniva identificata anche con altri nomi: commedia all’improvviso, commedia a braccio o commedia degli Zanni. Le compagnie erano girovaghe, potevano recitare tanto nelle piazze per il popolo, che nelle corti per i nobili. E’ qui che l’attore diventa un professionista ed è qui che finalmente cominciano a recitare anche le donne, finora bandite dalle rappresentazioni, infatti le parti femminili erano interpretate fino a quel momento da fanciulli o ragazzi. La Commedia dell’Arte non ha un testo né personaggi, ma canovacci e ruoli, anche detti “tipi fissi” che sono presenti più o meno allo stesso modo in tutte le compagnie. Gli attori partono da un canovaccio, sulla base del quale improvvisano il dialogo e l’azione e ogni attore recita sempre lo stesso ruolo, con l’identico costume e il nome che lo distingue da personaggi simili presenti nelle altre compagnie.
Le categorie generali dei caratteri fissi possono essere suddivisi in: innamorati, vecchi, servitori. Nondimeno, lo Zanni (il servo, furbo o sempliciotto) era l’elemento di maggiore rottura, visto che con i suoi lazzi e burle interrompeva l’azione e scatenava la comicità. Spesso gli zanni prendono in giro i loro padroni, ne rifanno il verso, ordiscono scherzi dalle imprevedibili conseguenze e il popolo che li guarda ride a crepapelle, si identifica in loro e immagina per un attimo di comportarsi anch’esso così con i nobili, con quei padroni che lo maltrattano e sui quali non ha e non avrà mai una rivincita.
Il mito di un teatro capace di rovesciar ogni cosa usuale, dagli spettacoli fino alle normali gerarchie di potere, si intreccerà strettamente con la visione della commedia all’improvviso come teatro del popolo.
Il celebre regista russo Vachtangov, tra l’altro maestro di recitazione al Teatro d’Arte di Stanislavskij, ritrova la Commedia dell’Arte come immagine di un teatro diverso, utopico, in cui gli attori appaiono, agli occhi dello spettatore che li ama, come gente che appartiene al suo stesso gruppo, che vive nella sua medesima condizione sociale, che ne condivide le origini, e che lavora e si prodiga per lui. Torna anche qui la sensazione che, inconsapevolmente, la Commedia dell’Arte fosse anche teatroterapia per quei fortunati che videro le sue rappresentazioni.
Contemporaneamente allo sviluppo della Commedia dell’Arte in Italia, nella vicina Francia e Inghilterra si avvicendano sulla scena drammaturghi del calibro di Pierre Corneille e Ben Jonson, i quali vivevano in una società che consentiva sì l’esistenza dell’arte teatrale come divertimento e ammaestramento degli spettatori, ma di certo non dovevano esserci dubbi sull’adeguatezza della ricompensa assegnata ai personaggi per la loro condotta: la commedia doveva quindi mettere in ridicolo ogni condotta biasimevole, come la boria, l’ipocrisia; e la tragedia doveva mostrare le disastrose conseguenze del lasciarsi andare a passioni sfrenate e atti delittuosi.
Quando, nel 1660 Molière si era ormai affermato come primo autore in Francia, porta nei suoi testi idee oggettivamente contemporanee. Il suo scopo era quello di mettere a nudo la borghesia dei suoi tempi, per smascherarne tutto il marcio, l'ipocrisia, la malattia, nascosta nel suo intimo. E' riuscito in questo intento facendosi autore-attore-regista di un teatro che è solo apparentemente comico e che attraverso la burla si prende gioco della borghesia, la pone davanti a se stessa facendole vedere cos'è realmente. Opere come L’avaro o Il tartufo scandalizzarono enormemente la borghesia francese di fine XVII sec. ma secondo la critica moderna ebbero il pregio di riuscire a curarla. Come ebbe a dire Garboli, traduttore dell’Avaro messo in scena recentemente da Gabriele Lavia: "L’ipocrisia si confessa a teatro, si scopre e si libera nella festa e nel gioco. In teatro l’ipocrisia non persegue alcun fine che il piacere di rivelarsi".
Ma torniamo in Italia, alla seconda metà del 1700: la commedia dell’arte comincia a mostrare segni di stanchezza e ripetitività, ma la svolta è dietro l’angolo allorché a Venezia un giovane, che il padre avrebbe voluto vedere avvocato, sceglie invece il mestiere di drammaturgo. Si tratta ovviamente di Carlo Goldoni e di quella che fu chiamata successivamente la riforma del teatro da lui operata: utilizzando spesso gli stessi personaggi della commedia dell’arte, il celebre commediografo cominciò però a scriverne le battute per esteso, creando commedie che rispecchiavano in modo vivace e con precisa e immediata naturalezza la vita quotidiana e i problemi della società del tempo.
Ogni opera di Goldoni contiene una sua morale, sottolineando nelle premesse il ruolo educativo dei caratteri. Il teatro trae dal mondo riferimenti, spunti, allusioni e richiami alla vita quotidiana. L'opera goldoniana rappresenta tutta la vita della Venezia e dell'Italia contemporanea, in maniera realistica e ironica allo stesso tempo. Inoltre, passando continuamente dall'italiano al veneziano e viceversa, Goldoni usa il linguaggio come metro sociale, in base alle varie situazioni in cui vengono a trovarsi i personaggi delle sue opere. Dona al dialetto veneziano la dignità di un linguaggio concreto e autonomo, diversificato dagli strati sociali dei personaggi che lo utilizzano.
Passiamo ora ad un altro drammaturgo, per la precisione della penisola scandinava.
Nel 1879 il norvegese Henrik Ibsen scrive Casa di bambola. La protagonista, Nora, all’interno del dramma si rende conto di essere stata sempre trattata, dal padre prima, dal marito poi, come una bambola senza cervello. Una volta raggiunta tale consapevolezza, decide di fuggire abbandonando tutto per cercare di diventare una persona autonoma. Tanto questo testo che Spettri, successivo al primo di soli due anni, scandalizzarono e al contempo ammaliarono la società borghese che stava per affacciarsi al ‘900. Il testo andò esaurito in due settimane suscitando fortissime polemiche.
Ibsen individua e rivela col suo lavoro una grande incoerenza tra gli autentici valori della vita e le norme comportamentali imposte dalla società. E il personaggio di Nora incarna la ribellione di una donna che aspira ad essere considerata "individuo" al pari di chiunque altro.
Le signore della borghesia norvegese videro lo spettacolo, ne lessero il testo, o almeno ne sentirono parlare. Sarebbe troppo lungo ricercare prove dell’effetto che Nora ebbe su di loro, ma di certo questo personaggio, per il solo fatto di esistere, operò una trasformazione dalla quale fu impossibile tornare indietro.
Il XIX secolo fu anche il periodo dei grandi compositori d’opera lirica, e Giuseppe Verdi il fiore all’occhiello della musica italiana. Tuttavia, forse non tutti sanno che anch’egli, dopo la morte della moglie e dei due figli, e il fiasco di una sua opera buffa, era sprofondato nella depressione, tanto da affermare di non voler mai più comporre musica. Che indicibile perdita sarebbe stata per l’umanità se Bartolomeo Merelli non gli avesse proposto il libretto appena scritto del Nabucco. Verdi lo divorò e ne fu preso talmente da comporre l’omonima opera in un tempo brevissimo, che fu solo la prima dei suoi numerosi capolavori.
E arriviamo a Luigi Pirandello, che nacque ad Agrigento il 28 giugno 1867 e scomparve a Roma, il 10 dicembre del 1936. Divenne celebre proprio per merito del teatro che definì “teatro dello specchio”, poiché in esso può venire raffigurata la vita reale, così com’è, priva della maschera dell'ipocrisia e delle convenienze sociali, di modo che lo spettatore osservi se stesso come in uno specchio e, comprendendo la propria vera natura, diventi migliore.
La critica lo indica come uno dei grandi drammaturghi del XX secolo. Verrà insignito nel 1934 con il premio Nobel per la letteratura. Pirandello ha realizzato moltissime opere per il teatro, novelle, romanzi.
Ecco cosa si legge in una lettera del 4 dicembre 1887, indirizzata alla famiglia:
Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell'aria pesante chi vi si respira, m'ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d'azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d'un subito saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: è una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi!
Secondo la concezione dell’autore, l'uomo del novecento ha l’obbligo di accettare che l'immagine che aveva sempre coltivato di sé non corrisponde in realtà a quella che gli altri avevano di lui e troverà sconfitta certa nella vana speranza di riottenere la propria verità.
L’uomo moderno si accorge che la società lo ha intrappolato in una maschera e sforzandosi di liberarsene prova disperazione poiché in cuor suo già sa di non avere alcuna chance di vittoria. Egli resterà quel che gli altri credono che sia, isolandosi in una prigione d’angoscia che lo condurrà inesorabilmente ad un esito tragico, alla follia o al suicidio.
Osservando l’umanità attraverso tali lenti risulta inevitabile la consapevolezza di non possedere una compatta identità, bensì un mosaico composto da centomila tasselli, che ineluttabilmente porta all’arrendersi alla totale alienazione da se stessi e alla follia. Sono esemplari i personaggi dei drammi Enrico IV, dei Sei personaggi in cerca d'autore, de Il gioco delle parti o di Così è se vi pare, solo per ricordarne alcuni.
E’ chiaro, perciò, che Pirandello non intende comunicare solo alla mera società, ma desidera affrancare l’uomo dalle maschere e dai limiti che quella stessa società gli impone.
Nella sua concezione, il teatro, con la sua innata funzione di specchio, è l’unica via per offrire all’uomo tale salvifica possibilità.
Passiamo adesso all’esempio più significativo di uomo di teatro che intende quest’ultimo come un medicamento, ovvero terapia, per le malattie del mondo. Antonin Artaud, nato a Marsiglia nel 1896 e deceduto a Ivry-sur-Seine nel 1948, è stato un commediografo, attore, regista e scrittore.
Secondo Artaud il teatro in occidente è stato colpevolmente confinato in un troppo esiguo spazio di esperienze umane, riferendosi alla vita del singolo individuo piuttosto che dei gruppi più allargati, mentre gli aspetti principali dell’esistere si ritrovano persi nei meandri dell’inconscio, dove si celano le cause dell’odio, della violenza e degli istinti distruttivi. Il vero scopo del teatro è offrire un’esperienza paragonabile a quella dei riti religiosi, dove si assurge ad una purificatrice comunione e sia possibile liberare, portandoli alla luce, i sentimenti che di norma l’uomo manifesta in modi dannosi per se stesso e i suoi simili.
Artaud vede il mondo come un malato e il teatro è il rimedio per arrivare alla guarigione Egli definiva il suo un “teatro della crudeltà” perché per raggiungere il suo fine avrebbe dovuto costringere lo spettatore a guardare dentro di sé. Il suddetto spettatore, poi, dopo aver assistito al processo in cui l’attore si immergeva completamente dentro se stesso, avrebbe dovuto lasciare il teatro spossato, coinvolto e trasformato.
Per ottenere questo risultato, Artaud voleva abbandonare il solito teatro e sostituirlo con vecchi spazi industriali o hangar di aerei; non voleva alcuna scenografia ma fantocci, costumi rituali, oggetti di stranissime forme; inoltre aveva bisogno di violenti fasci di luce che cambiassero di colore e improvvisamente tornassero al bianco, oltre alla presenza di suoni acuti o comunque effetti sonori dissonanti con sbalzi di volume. Trattava la stessa voce umana come uno strumento per esprimere tonalità, modulazioni, armonie o dissonanze. Insomma, il suo intento era aggredire il pubblico tanto da rompere le sue resistenze e purificarlo ricorrendo ad un linguaggio che si rivolgeva direttamente ai sensi. Inutile dire quanto ai suoi tempi tali teorie fossero ostracizzate.
Totò, nome d’arte di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, più semplicemente Antonio De Curtis, nasce il 15 febbraio 1898 al Rione Sanità, quartiere popolare di Napoli e morirà a Roma il 15 aprile del 1967. Tutti noi lo ricordiamo per l’intensa, spassosa e brillante carriera cinematografica, ma forse in pochi sanno che il teatro fu il suo primo amore, e i palcoscenici di Roma casa sua. Certo, il periodo è particolarissimo: Totò recita durante l’avvento del fascismo e la successiva II Guerra Mondiale.
Il suo genere era la "rivista", un performance teatrale sorta a Parigi e dal carattere esclusivamente satirico - per quanto concesso dal regime fascista - presentato sotto forma di azioni sceniche ricche di allusioni e di accenni piccanti. Naturalmente la ferrea censura del fascismo era attentissima a qualsiasi battuta ambigua o negativa sul Governo di Mussolini.
Totò debuttò al teatro Quattro Fontane di Roma insieme a Mario Castellani, da quel momento la sua "spalla" ideale, ed Anna Magnani, con i quali instaurò un solido rapporto artistico e umano. La Magnani fu probabilmente l'unica interprete femminile in grado di misurarsi con la recitazione di Totò.
La rivista era Quando meno te l'aspetti di Michele Galdieri, uno tra i grandi scrittori di riviste teatrali degli anni Quaranta. Causa la guerra, furono tempi difficoltosi anche per il teatro.
Nel maggio del '44, la rivista Che ti sei messo in testa, che avrebbe dovuto chiamarsi Che si son messi in testa?, un chiaro accenno ai tedeschi occupanti, creò problemi al comico napoletano, che dopo le prime rappresentazioni al Teatro Valle di Roma, venne dapprima intimorito con una bomba all'entrata dal teatro, poi denunciato alla polizia, insieme ai fratelli De Filippo.
Il 26 giugno riprese a recitare: tornò al Teatro Valle con la Magnani nella nuova rivista Con un palmo di naso, in cui diede libero sfogo alla sua satira impersonando il Duce sotto i panni di Pinocchio, e Hitler, che dissacrò ulteriormente dopo l'attentato del 20 luglio 1944, rappresentandolo in un atteggiamento ridicolo, con un braccio ingessato e i baffetti che gli facevano il solletico, e mandando l'intera platea in estasi. Ma sentiamo proprio le sue parole sullo spettacolo:
Io odio i capi, odio le dittature... Durante la guerra rischiai guai seri perché in teatro feci una feroce parodia di Hitler. Non me ne sono mai pentito perché il ridicolo era l'unico mezzo a mia disposizione per contestare quel mostro. Grazie a me, per una sera almeno, la gente rise di lui. Gli feci un gran dispetto, perché il potere odia le risate, se ne sente sminuito.
Erano gli anni ’40. Il prof. Spina non era ancora nato e nessuno aveva posto le basi teoriche della comicoterapia. La rivista di Totò e Anna Magnani (giusto per citare due grandissimi: i teatri erano pieni di bravi comici) concedeva un attimo di tregua al popolo italiano. Fuori le bombe, i nazifascisti, la fame, la paura; dentro il teatro le luci, le musiche, belle ragazze che ballano e attori come mai più ce ne saranno che fingono d’innamorarsene e d’esserne respinti, che giocano col pubblico e inscenano gags esilaranti, il più delle volte improvvisate. La rivista crea un paradiso, apre una parentesi, offre un attimo di respiro agli orrori che accadono un metro più in là e offre l’illusione che si potrebbe anche vivere così. E con lo spettacolo in cui prendeva in giro Hitler, Totò aveva esattamente praticato un’inconsapevole seduta di comicoterapia sui fortunati spettatori che quella sera erano lì.
Vorrei terminare questo viaggio con una piccola incursione cinematografica, ad opera di una altro grandissimo comico d’oltreoceano: Woody Allen. In uno dei suoi film migliori, a mio parere, Hannah e le sue sorelle, Allen interpreta un simpaticissimo produttore televisivo ipocondriaco, in cui la paura di gravi malattie lo porta ad isolarsi sempre più, lasciare il lavoro, addirittura meditare il suicidio. E’ a quel punto della sua vita quando, per puro caso, entra in un cinema dove proiettano una vecchia pellicola in bianco e nero dei fratelli Marx. Il personaggio inizia a ridere. E si distende. E tutte le sue paure, poco a poco, gli sembrano più piccole, più gestibili. Non sono più loro che comandano lui, è lui che forse, riesce a dominarle. Certo, resta l’incertezza del presente, della vita, l’ineluttabilità della morte, ma forse, nel frattempo, si potrebbe anche ricominciare a vivere. Dopo qualche mese incontrerà la sorella minore di Hannah (la sua ex moglie, interpretata da Mia Farrow) e la sposerà. Il film è uno dei pochissimi del celebre attore regista col lieto fine. E tutto grazie a una risata.
Cecilia Moreschi
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